In fila, uno dietro l’altro, schierati in ordine di grandezza, coltelli di ogni forgia corrono lungo tutta la parete della grande cucina del suo amato rifugio di Castelmola. Ma lo chef Giovanni Cannavò, che ha scelto di vivere in campagna dopo aver passato tutta la vita tra i vip, nei ristoranti dei più importanti alberghi di Taormina, non smette di fissare l’unico spazio rimasto vuoto nella lunga fila di lame di quella ordinata sequenza.
Sono gli strumenti di lavoro, i suoi compagni di sempre, a svelare i dettagli di un successo professionale durato quasi mezzo secolo. A loro si sente legato quanto un pastore alle sue pecore, ecco perché quando uno dei suoi attrezzi, per qualche vaga ragione, viene a mancare nelle sue collezioni, il suo pensiero si raggruma su quell’assenza. “Nelle occasioni di lavoro – spiega lo chef che, alle soglie dei 70 anni, non cerca più responsabilità di cucina, ma abbraccia di buon grado solo quelle occasionali, come la gestione delle cucine nell’ultimo congresso regionale dell’Urcs a Taormina, con oltre 500 coperti a pasto – io porto sempre con me gli strumenti che so che mi serviranno e quel coltello, una lama perfetta per certi lavori, anni fa inspiegabilmente sparì. Ho provato a sostituirlo con un altro simile, ma non è più la stessa cosa”.
In un’epoca di chef star e di cuochi protagonisti di tante trasmissioni televisive, si potrebbe pensare che è facile riuscire a creare in poco tempo piatti appetitosi e gradevoli alla vista, ma lo chef Cannavò, che ha conosciuto gli allori dopo le fatiche di tanto lavoro, mette in guardia i giovani a non cadere nella trappola del momento.
“Per preparare un buon piatto occorre conoscere i suoi segreti – dice lo chef che ha collezionato medaglie e premi partecipando ai più prestigiosi concorsi nazionali ed internazionali e ha pure ricevuto l’incarico di cucinare per Papa Giovanni Paolo II e per il suo entourage durante la visita pastorale del 1988 a Messina – non basta possedere l’abilità di assemblare piatti, la fantasia di sostituire ingredienti e la capacità di sovvertire i metodi di cottura. Ottime doti, certo, ma non ci più essere successo duraturo se manca lo studio, la lettura dei libri, il confronto con i colleghi, il continuo allenamento e l’esercizio costante ai fornelli. La vera arte in cucina – sospira lo chef che ha insegnato per 28 anni come istruttore di cucina teorica e pratica al centro di formazione professionale San Pancazio di Giardini Naxos – non si può tradire con surgelati pronti, preparati alimentari e semi-preparati. Io li chiamo “chef da venti minuti” e temo che, così come sono veloci i loro piatti, rischiano di essere veloci anche le loro carriere. La manualità, la conoscenza diretta dei prodotti e dei produttori: questo è importante. Poi si può anche ricorrere saltuariamente a questi aiuti, ma bisogna saper fare ogni cosa, per essere in grado di far fronte ad ogni evenienza, in qualsiasi circostanza”.
Per Giovanni Cannavò conoscere e saper usare alla perfezione ogni strumento di lavoro è fondamentale per ogni vero chef, e casa sua ne è piena come un museo. Sono le testimonianze materiali della sua filosofia della perfezione: “ogni attrezzo deve essere sempre quello giusto, va usato come si deve, al momento giusto, e poi va riposto con attenzione e cura”. Per questo ogni piatto della sua collezione, ogni formella, ogni spilucchino, ogni diverso tipo di mannaia sembrano grondare storie, fatte di creazioni speciali per feste importanti, di composizioni spettacolari per eventi memorabili, di torte nuziali per matrimoni da sogno.
In un angolo appartato del suo segreto rifugio – un piccolo paradiso incastonato ne verde di alberi da frutto, che lui stesso coltiva, scegliendo tra varietà antiche e ormai fuori mercato, su una collina isolata dalla quale si dominano panorami mozzafiato a picco sull’azzurro del mare – fanno capolino alcune casse di legno che lasciano intravedere il lucido color biscotto di antiche formelle da mostarda. Alcune sono molto particolari e pare risalgano all’Ottocento. Su un lungo tavolo, disposti in fila per la periodica lucidatura, sono allineati stampi di rame per budini, alti e merlati come castelli. Più in là, sospese in una teca di legno, riposano alcune decine di rotelline per tagliare la pasta fresca, alcune con manici eleganti e decorati, altre con impugnature comode e anatomiche.
“Si sono perse le diversità – dice lo chef mostrando con orgoglio la collezione di imponenti siringhe di metallo, un tempo usate per gli impasti e ora schierate su un tavolo, quasi a fare da sentinelle alle pile di dischi intercambiabili che un tempo servivano a dare svariate forge a pasta e biscotti freschi – i prodotti per la ristorazione, quelli industriali, sono ormai tutti omologati, mentre invece bisognerebbe riscoprire il piacere di diversificare l’offerta a tavola”.
Ma è la conoscenza che fa la differenza, oggi come ieri. E così, tra gli strumenti di lavoro ai quali Cannavò è più affezionato, ci sono i libri. In una stanza le cui pareti sono tappezzate di diplomi, riconoscimenti e premi, tra medaglie e fotografie, una libreria trabocca di volumi di cucina. Sono stipati secondo una logica settoriale e divisi per argomento. “Sono il mio patrimonio – dichiara con orgoglio – collezioni di ricette anche molto antiche che valgono oro perché rappresentano le nostre origini. Non può esserci biblioteca virtuale che possa contenere un quantità di libri selezionati come questa”.
“Da questo libro nero – dice, sfilando un vecchio tomo dalla bacheca – ho preso in prestito la ricetta di una charlotte alla russa con la quale, tanti anni fa, ho vinto il primo premio in un concorso che mi fruttò cinque milioni di vecchie lire in gettoni d’oro. Con quel bottino, molti anni dopo, ho coperto buona parte delle spese che ho dovuto affrontare per il matrimonio di mia figlia”.
L’orgoglio è legittimo perché lo chef Cannavò soddisfazioni sul lavoro ne ha avute tante, e anche riconoscimenti: da quella del Collegio Cocorum alla nomina a Discepolo d’Auguste Escoffier, poi di Cavaliere della Chain de Rostisseur e di Maestro di Cucina. Ma la sfida che attende adesso Giovanni Cannavò sarà trasformare i suoi ricordi in un vero museo.
“Non voglio che vadano perduti, tutti questi cari strumenti di lavoro – dichiara – e non voglio neanche che si rischi che vengano rubati. I giovani hanno bisogno di sapere cosa usavano gli chef prima che le cucine fossero riempite di forni trivalenti, robot, mixer e abbattitori. E cercherò con ogni mezzo di preservare questa memoria collettiva”.
Quando la luce del giorno si affievolisce e le ombre in giardino si allungano, Giovanni Cannavò ritorna in casa, tra i suoi oggetti e i suoi ricordi. Lo attende un altro lavoro: “Sulla mia scrivania ho un quaderno – dice – che sto riempiendo di ricette che la mia memoria fa affiorare. Anche questi ricordi non voglio che spariscano”.