Il riso iniziò ad essere coltivato in Sicilia sin da quando la coltura era stata introdotta dagli arabi. Da lì a breve s’era diffusa in diverse aree dell’isola, dal Catanese, al palermitano, all’Ennese, sino ad arrivare a Biancavilla, ad Adrano, a Centuripe, a Regalbuto, e financo nell’agrigentino.
La prima condizione per la coltivazione del riso nell’isola, era che la terra godesse di una buona irrigazione, abbondando d’acqua s’intende, e che il terreno fosse stato necessariamente arenoso. Tutti presupposti che conosceva bene il Barone di Sigona, Michelangelo Paternò, futuro Principe di Biscari. Egli infatti faceva appianare i terreni ai suoi contadini, per poi dividerli in caseddi, nelle quali a fine marzo, essi stessi avrebbero immesso abbondante acqua. Spettava sempre a loro spargere le sementi, per poi aspettare che con il tempo le pianticelle si abbarbicassero bene al terreno. Arrivato settembre, cresciuto il riso, , quando insomma, la risaia oramai era asciutta e le spighe erano ben dorate, esso veniva falciato e raccolto in frasca. Del raccolto si conservava sempre una parte delle sementi, per la semina dell’anno successivo, la rimanente parte sarebbe stata venduta. Sull’aia, il riso sarebbe stato trebbiato da muli, che venivano fatti girare con dovizia attorno ad una colonna, poi ai bordonari il compito di portarlo ai mulini per la brillatura.
Nel feudo il Barone di Sigona amministrava con abilità innata le sue immense proprietà. E proprio qui che faceva vendere ai suoi gabellotti la canapa, le fave, l’orzo, il fumento e il riso raccolto ed ogni sorta di formaggio.
Impartiva ordini ben precisi per raccogliere il fieno, acquistare e vendere il bestiame o gli strumenti che necessitavano agli stessi contadini, il legname o le tegole e quant’altro occorresse per costruire i canali e le saie che sarebbero servite ad irrigare le coltivazioni. Per i terreni l’acqua era sempre stata il bene più prezioso, essa veniva fornita dal Gornalunga, il fiume che attraversava il feudo.
L’acqua era un bene essenziale e per questo in ogni zona dove veniva coltivato il riso le contese per il prezioso liquido erano all’ordine del giorno.
“Nell’anno 1700 Don Ascanio Riccioli di Catania, barone della Bagnara, scriveva alla “Regia Gran Corte”, per il gran torto subito dal Sigona. Don Ascanio riportava che da sempre il suo feudo godeva di “tarì dodici d’acqua” continua per i suoi acquedotti necessari per riempire d’acqua le risaie, ma il barone della Sigona, Michelangelo « con prepotenza impedisce allo stesso Don Ascanio, suo confinante, l’uso dell’acqua a lui e alla sua servitù per la coltura e l’arbitrio del riso”.
Il riso che era destinato a Catania, Acireale e Messina veniva fatto trasportare dal Sigona sulla spiaggia nei pressi della foce del Simeto e poi al mulino di Capomulini; quello destinato a Palermo veniva imbarcato allo «scaro» di Agnone. Il nolo di una barca era in genere di 5 tarì a viaggio. Il trasporto del riso dal feudo agli «scari» necessitava di molti muli e per questo il barone assoldava diversi bordonari che con le loro «retine» si occupavano del viaggio:
6 giugno 1761- Cosma D’Angelo di Aci Catena si impegnò a trasportare il riso dal feudo della Sigona sino « alla Marina, allo scaro nominato dello Sparapolo» con 12 muli ed altri tre per «pestarlo» nell’aia; per tale travaglio il D’Angelo aveva ricevuto come ricomprensa 15 onze.
I terreni più adatti alla coltivazione del riso si trovavano nella Piana di Catania, più precisamente nella zona di Lentini, e con esso venivano coltivati anche grano e orzo. Della coltivazione e della vendita del riso s’era occupato anche il Principe Vincenzo Paternò Castello di Biscari nel feudo di Ragona e prima di lui, il primo principe, Agatino.
Michelangelo, Barone di Sigona, diventato Principe di Biscari, in occasione della festa di San Nicolò a cui era dedicata la chiesa del proprio feudo si preoccupava di far comprare i canditi da distribuire ai suoi contadini, o la carne per i garzoni. I suoi feudi fornivano il Monastero dei benedettini di Catania d’ ingenti quantità di riso, vesciche di strutto e cafissi d’olio per le fritture, frumento per il pane e la pasta , cosce di vitello intere e ruote intere di formaggi e altro ben di Dio…
Il riso della Sigona, in città, era il più apprezzato, tanto che i monaci Benedettini lo usavano per preparare gli “arancini di riso”, grossi ciascuna come un mellone e le immancabili “crespelli di riso melati”.