Le parole intrecciate nel dialetto siciliano da suo nonno, ormai non le ricorda più. Ma le ricette custodite nel guscio delle antiche tradizioni, quei piatti che riempivano l’aria di profumi e il palato di sapori, non le potrà mai dimenticare perché sono scolpite nella sua memoria da quando, ancora bambino, per giocare si nascondeva tra le pentole e i fornelli del ristorante che in America aveva aperto suo padre.
“Era famoso soprattutto per i piatti di pesce, per il fritto e i frutti di mare che serviva preparando gustosissime zuppe: le più buone della California, si diceva”. Paul Capurro, chef da 48 anni nello stesso ristorante che 70 anni fa aveva aperto il padre su un molo della rinomata baia di “Fisherman’s Wharf”, a San Francisco, parla con onesto orgoglio dell’impresa che aveva avviato suo padre. Quel ristorante sull’Oceano infatti era già famoso negli anni successivi al secondo dopoguerra, quando in città si celebravano le nozze di Joe Di Maggio con Marilyn Monroe, e oggi che a San Francisco e nella sua Silicon Valley sono concentrati tutti i colossi mondiali dell’elettronica e dell’informatica, dalla Apple a Google, la fama di “Capurro’s” è così tanto cresciuta da richiedere l’ingaggio di 55 dipendenti, quattro dei quali oggi sono siciliani, e può contare su un flusso in costante crescita di clienti, pare formato anche da registi e produttori di Hollywood, ma soprattutto può vantare ogni giorno tavoli sempre pieni e prenotazioni obbligatorie.
“Devo tutto a mio nonno in realtà, che durante gli anni dell’emigrazione aveva lasciato il piccolo borgo marinaro di Sant’Elia, nel Palermitano….”. Mentre parla il suo sguardo scorre su un’ampia parete del ristorante, interamente tappezzata con foto in bianco e nero. Sono le foto di famiglia: nonne e nonni, zii e zie, cugini che lui stesso non ha mai conosciuto. E tanti bambini, carretti siciliani decorati, e semplici casupole su strade non ancora asfaltate. In ogni cornice c’è un ricordo, un frammento di una Sicilia che ormai in Sicilia non c’è più, ma che per gli americani figli e nipoti di emigrati è l’unica possibile. Ma soprattutto in ogni oggetto, custodito come cimelio, c’è un sentimento di profonda riconoscenza, quella che soltanto gli uomini saggi sanno tributare ai maestri che riconoscono essere stati alle radici del proprio successo. “Mio nonno era un abile pescatore, sapeva adoperare una speciale tecnica per la pesca delle alici: un metodo in uso a quell’epoca soltanto in Sicilia e sconosciuto in California, grazie al quale con altri pescatori siciliani fece fortuna, contribuendo alla nascita, nel quartiere di “Fisherman’s Wharf” a San Francisco, di un fiorente mercato ittico. Per questo, nel ristorante di mio padre, il pesce non mancava mai. Ed era sempre freschissimo”.
Freschissimo come ancora oggi continua ad essere tutto il pesce che viene servito ai numerosi tavoli del suo ormai più importante ristorante. “La prima lezione che mi diede mio padre fu che solo gli ingredienti di prima scelta fanno la buona cucina. Poi c’è la tecnica, l’abilità del cuoco, i piccoli segreti, e solo alla fine può esserci l’innovazione”.
Ma Paul è diventato ancora più cauto del padre perché dall’esperienza fatta in sala e in cucina dalla sua famiglia ha imparato un’altra lezione che chiama “la regola d’oro”. “Non bisogna mai assecondare le mode del momento. Le richieste dei clienti, o quello che noi pensiamo loro vogliano, sono spesso solo idee stravaganti. Si sbaglia molto se ci si lascia influenzare: la cucina è personale e le consuetudini della tradizione sono quasi sempre dei dettami non barattabili con l’aspirazione di un nuovo successo. La salvezza per noi cuochi è rimanere ancorati al passato: le ricette delle nonne sono frutto di elaborazioni stratificate nei secoli che nessuna innovazione repentina può sostituire con un riconoscimento duraturo”.
E’ per questo che in una sala piena di pupi siciliani, carretti, e simboli di un’isola antica e lontana, ma sempre presente nel cuore dei titolari del ristorante, persino dei tre figli di Paul che vi lavorano con un approccio sempre più da manager, sui tavoli vengono proposti menù pieni zeppi di piatti che sembrano uscire dalle pagine del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: timballi di riso, involtini di pesce spada, ravioli di cernia, e poi cannoli con la ricotta, cassate, sfincioni… “Serviamo solo piatti della tradizione siciliana. Siamo orgogliosi di poter proporre arancini al sugo e pasta ripiena al pesce fatta con una sfoglia rigorosamente tirata a mano. Ma i nostri piatti forti continuano ad essere quelli di pesce: il “cioppino”, la famosa zuppa che rese famoso il ristorante di mio padre, fatta con frutti di mare e pomodoro, i tranci di pesce a fetta conditi col salmoriglio, i dolci siciliani alla ricotta. Non vogliamo alcun compromesso con la cucina degli americani: la tradizione non si baratta. E alla fine è solo questa la scelta vincente”.
Ai giovani cuochi siciliani, insieme ad un saluto pieno di nostalgia per una Sicilia che non ha mai conosciuto direttamente ma che “prima o poi, quando il ristorante gli darà un po’ più di tempo”, vorrà visitare, lo chef siculo-americano consiglia di tenere duro e di non abbattersi mai “perché fare il cuoco è un mestiere difficile, ma pieno di gratificazioni se si fa col cuore e con la passione”, di restare in Sicilia “innanzitutto per imparare tutto da chi conosce veramente bene il mestiere”. E poi, per chi ne ha voglia, aggiunge un invito a provare a fare fortuna in America: “qui ci sono tanti ristoranti che cercano bravi esperti cuochi siciliani. Ma bisogna essere proprio bravi!”.
Commento a cura di Privitera Domenico
“Le parole di Paul Capurro mi fanno venire in mente la mia prima esperienza lavorativa a Taormina”, ricorda Domenico Privitera, presidente dell’Associazione regionale Cuochi Siciliani. “Era il 1983, il periodo della “nouvelle-cuisine”, e anch’io, ancora inesperto, volevo imitare i cuochi francesi che, per esempio, mettevano come contorno soltanto tre piselli.
Anche Gualtiero Marchesi conquistò notorietà importando in Italia l’eleganza della nouvelle-cucine, ma gli chef italiani anziani con i quali lavoravo dicevano chiaramente che era impossibile accettare quella moda.
Poi venne la cucina “fusion”, che si rivelò piuttosto una “gran confusion” perché non si rispettavano le regole di cottura o di abbinamento. Tutto era fatto senza regole, e purtroppo ancora si piangono le conseguenze professionali di cuochi che si sono formati in quel periodo e che non hanno conosciuto le regole d’oro della cucina classica.
Oggi va di moda la cucina “tecnologica” grazie a speciali attrezzature che consentono la cottura lenta, sottovuoto ecc. con la possibilità di conservare il cibo per poi rigenerarlo e servirlo: io lo definisco “cibo riscaldato”.
Nessuno invece dice che coloro che hanno fatto la storia della ristorazione italiana, in questi anni, sono ritornati a fare cucina tradizionale, secondo lo stile italiano.
Così quando Paoul Capurro, dall’altro lato dell’Oceano, dice che “non bisogna mai assecondare le mode del momento”, sta facendo una dichiarazione della quale sono anch’io da tempo sostenitore. Sottoscrivo pienamente la sua frase: “Le richieste dei clienti, o quello che noi pensiamo loro vogliano, sono spesso solo idee stravaganti”, ma aggiungo anche che “gli spaghetti alla carbonara saranno forse brutti da guardare, ma sono ottimi da gustare: questa è la vera cucina italiana”.